Merda,
pensò di colpo S.
Merda
merda merda.
Il rumore di
quelle parole si contorceva nel suo cervello seguendo i movimenti
ancora insicuri del suo corpo, quasi ondeggiando. Le braccia e le
gambe anchilosate tendevano le coperte in ogni direzione.
Erano le ore
07:08 di un soleggiato lunedì mattina.
S. si era
svegliato da pochi secondi ma già sapeva che sarebbe stata una
giornata difficile: un raggio di luce era filtrato attraverso la
serranda abbassata e aveva colpito direttamente i suoi occhi senza
essere invitato. Non era un buon inizio, e sembravano essersene
accorte anche le sue palpebre, che non volevano saperne di aprirsi.
Come se fossero appiccicate una all’altra.
“Svegliati
pigrone, sono le otto!”
Quella voce, così distorta e distante, era di sua
madre, V., una casalinga grassoccia, invecchiata in fretta e senza
accorgersene, come tutte le persone che hanno avuto figli. Aveva
bussato alla porta ed era entrata nella camera di S. senza aspettare
la risposta, come faceva sempre d’altronde, anche nei momenti meno
opportuni.
“Si..adesso arrivo! Cazzo..aspettami di sotto”
Appena queste parole, accompagnate da un buon
quantitativo di alito pesante, uscirono dalla sua bocca, S. si alzò
dal letto, quasi come se fosse stato scaraventato fuori dai sogni, e
si diresse verso il bagno trascinando lentamente un passo dopo
l’altro. Come se ogni passo fosse una fatica che andava
attentamente soppesata..
Arrivato davanti al bagno, dopo uno sforzo che gli
sembrava francamente disumano, aprì la porta del bagno e si diresse
verso la tazza. Aveva sentito da qualche parte che il modo migliore
per superare i postumi di una bella sbornia era bere molto, ma forse
era soltanto un’altra leggenda metropolitana. Come i coccodrilli
nelle fogne, o come il Papa. Meglio non pensarci, c’erano cose più
urgenti da fare.
La sua perfetta, goduriosissima, pisciata
mattutina fu bruscamente interrotta dalla suoneria del cellulare:
sapete, ci sono alcune persone che pensano che basti conoscere la
suoneria di qualcuno per capire che tipo sia. Beh, se questo fosse
stato vero, S. sarebbe sicuramente stato un telefono dei primi del
novecento, uno di quelli con la cornetta e con il filo arrotolato.
“’Giorno piccola. Sì, è il primo
giorno...No, non sono nervoso...Mica devo progettare centrali
nucleari...'Sto lavoro lo può fare pure una scimmia...Sì, va bene,
ti chiamo quando faccio pausa...No, non ho la più vaga idea di
quando c'è pausa...Primo giorno...Va bene, a dopo. Si, sono
stanco…Buona giornata…”
Visto che aveva interrotto la sua routine S.
decise di accendere il computer, e di guardare i suoi messaggi. Un
cestino di mondezza virtuale: ecco cosa succede nel mondo mentre
dormiamo. Spam, nient’altro che pile di spam che ci vengono
lanciate addosso appena abbassiamo la guardia per qualche ora.
La luce bluastra del monitor faceva sembrare S.
ancora più pallido, quasi malato. Aveva bisogno della sua medicina:
15cc di Coffea arabica macinata e torrefatta, da assumersi
preferibilmente per via orale. C’era un solo ostacolo fra lui e il
caffè, una manciata di acqua fresca sul viso.
Il ritorno al bagno fu meno difficoltoso: le gambe
avevano ripreso a funzionare in maniera soddisfacente. S. riaprì la
porta e si posizionò solidamente davanti all’ampio specchio che si
trovava sopra il tinello. Si guardò fisso negli occhi. O almeno era
quello che voleva fare. Restò qualche secondo immobile, fissando
allibito lo specchio: c’era dello sporco, ma non aveva idea di cosa
fosse. Poi Indietreggiò in maniera insicura di
un soli due passi, come se avesse paura di inciampare sulla sua
ombra, continuando a guardare enigmaticamente ciò che aveva di
fronte.
In
un unico, brevissimo, istante compì un movimento repentino e,
poggiando la mano sulla maniglia, si lanciò verso la cucina, dove
sperava di trovare la famiglia raccolta davanti alla colazione ancora
calda, come ogni lunedì mattina dalla notte dei tempi.
Il
rumore della porta che sbatteva fu la sua presentazione migliore,
racchiudeva tutta la sua personalità in un unico, semplice, suono:
fece irruzione violentemente nella stanza dove regnava il solito
silenzio dovuto all’orario, alla stanchezza ed alla poca fantasia
che si nascondeva nei geni dei Moro, e si mise a guardare i suoi
familiari con uno sguardo attonito e curioso, in attesa di vedere le
loro reazioni.
Un
volto, poi un altro.
Poi
un altro giro, così, per sicurezza.
Il
Signor Moro si prese giusto il tempo per dire “Buongiorno”, e poi
tornò al suo cornetto intriso di caffelatte. Non riusciva a
connettere prima di mezzogiorno, a meno che non ci fosse una partita
di calcio da qualche parte del globo terrestre.
“Tesoro,
non mi importa quanto vai di fretta, non esci se prima non fai
colazione!”
V.
aveva preso suo figlio per le braccia, attanagliandolo con quella che
sembrava essere una mossa da wrestler professionista, e l’aveva
letteralmente messo a sedere. Per pochi attimi l’aroma del caffè
aveva offuscato i pensieri di S, spingendolo a dimenticare quello
specchio vuoto. Essenza di fiore di loto versione 2.0.
Ma
non era bastato.
“Ma
tu mi vedi?”
“Piccolo
mio, non mi guardare così…sei bellissimo come sempre! Ma fatti la
barba”
Quella
mano passata dolcemente sulla guancia ancora ruvida era stata di
troppo: aveva segnato il netto passaggio dalla notte al giorno,
inaspettato come quell’invadente raggio di sole.
S.
si era svegliato: non era un sogno.
“Cazzo
mamma, perché cazzo non riesci ad ascoltarmi? Non ho chiesto COME mi
vedi, ho chiesto SE mi vedi! MI VEDI?”
Ma
il nulla degli occhi di V. era troppo evidente: un deserto di sale
senza neanche un’oasi di saggezza, o di speranza. Come se le
stessero parlando di fisica molecolare. Era un vuoto umido che
riempiva tutta la stanza, e la svuotava. Non c’era più spazio.
S.
aveva bisogno d’aria, di risposte, di mille altre cose che neanche
riusciva ad immaginare tanto erano sepolte sotto un centinaio di
chili di stronzate quotidiane: uscì dalla stanza alla stessa
velocità con cui era entrato. E svestito nello stesso modo. La luce
verde dell’ascensore fermo al piano era come un semaforo che lo
invitava a scappare più in fretta che poteva.
Merda.
Proprio oggi dovevo prendere l’ascensore?
Lo
specchio rifletteva con chiarezza le porte che si chiudevano alle sue
spalle. Lui non c’era, era perso nel meccanismo arrugginito di
quello scatolone semovente. Si girò di scatto, dando le spalle allo
specchio: gli sembrava la soluzione migliore.
Unica
o migliore, non fa una gran differenza.
L’attesa
era infinita: un lungo silenzio imbarazzato con se stesso. Peggio di
quando era rimasto incastrato lì dentro con la Signora Satri, una
novantaduenne arterioscelotica che lo aveva scambiato per suo nipote.
Le
porte spalancate erano il segnale che aspettava: le sue gambe si
muovevano quasi da sole, anche perché nel suo cervello aveva ben
altro a cui pensare. Capire è molto più faticoso e complesso di
quanto non si pensi.
Rimaneva
soltanto da trovare qualcuno con cui parlare, qualcuno più sveglio
di sua madre. Una persona qualsiasi, insomma.
Uno.
Il
gabbiotto della portineria. Bene. L. non sarà un genio ma almeno mi
conosce. Magari non si spaventerà. Magari non chiamerà neanche la
polizia.
E’
incredibile come, anche nei momenti di stress, il nostro cervello
riesca a rimanere lucido.
L.
stava appoggiato al vetro del gabbiotto, soprappensiero. Anche lui
doveva essersi svegliato male, perché non aveva un’aria riposata.
“L.!
L.! Ehi!”
S.
strinse le spalle di L. come se lo stesse impugnando: un pallone da
basket umano. Iniziò a scuterlo come se stesse cercando degli
spiccioli.
“Mi
vedi? Cazzo, mi vuoi rispondere, mi vedi? Eh? Eh? Mi vedi?”
L.
sembrava una lattina di coca-cola shakerata: stava per esplodere. I
piccoli sputi che S. gli aveva inavvertitamente stampato in faccia
non erano stati certo d’aiuto nell’evitare la prevedibile
reazione dell’anidride carbonica agitata a quella velocità. Si
liberò senza troppa fatica dalla presa di L. e lo scaraventò a
terra come se fosse un bambino di dieci anni. Una piccola eco si
espanse per l’androne, appena percettibile.
“Vedo
che sei un testa di cazzo! Levati dalle palle prima che ti prenda a
calci nel culo brutto stronzo! Ma guarda tu che gente che ci sta in
giro. Per ‘sti due spicci poi…”
Le
parole di L. avevano fatto appena in tempo a raggiungere le orecchie
ancora sporche di S., che stava velocemente uscendo dal cancello. Era
come rimbalzato per terra, ed aveva ricominciato a correre come se
tutto quello che era successo fosse soltanto un sogno post-realista.
Due.
Quella
signora va bene. È perfetta. Non è vecchia. Non ha una borsetta con
cui menarmi. Niente accuse di scippo. Se mi avvicino con calma e
cortesia dovrebbe darmi retta. Buongiorno, mi scusi, permette una
domanda. Buongiorno, mi scusi, permette una domanda. Buongiorno, mi
scusi, permette una domanda. Buongiorno…
Ma
c’era qualcosa che non andava: il suo corpo non riceveva gli
impulsi neuronali in maniera corretta. Come se si disperdessero. Come
se interagissero con l’adrenalina in maniere imprevedibili.
La
prima cosa che fece fu quella di correre alle sue spalle senza
rallentare minimamente, superando di striscio le due persone che li
separavano; poi mise una mano sulla spalla della signora, toccando
appena i suoi capelli ricci.
“MI
SCUSI, PERMETTE UNA DOMANDA!”
Il
tono di voce non era quello che voleva, neanche lontanamente. Era un
lamento strozzato, troppo acuto, troppo perentorio, troppo ad alto
volume. Non sembrava cortese.
Tutti
si erano girati a guardarlo.
La
donna si era come accartocciata, spalmata sul muro sporco di polvere
e graffiti. Aveva alzato la gamba, come se il suo ginocchio portato
all’altezza dell’inguine potesse proteggerla da una qualsiasi
minaccia.
Meglio
lasciar perdere questa stronza.
Ma,
proprio in quel momento, si avvicinò un uomo sulla quarantina, col
passo sicuro e l’aria minacciosa. Era un armadio, e S. era un
semplice vestito. Mancava solo una stampella.
Tre.
Ottimo.
Ecco il solito coglione che vuole fare il fico per impressionare la
ragazza di turno. Classica sindrome del principe azzurro. Se avesse
più capelli la ragazza ci cadrebbe alla grande. Almeno lui non si
spaventerà. Devo solo stare attento ai calci sulle palle.
“Senti
ragazzino, vedi di darti una calmata! Se provi a mettere un’altra
volta le mani addosso alla signorina io ti…”
Ma
era troppo tardi: è inutile cercare di restare lucidi, è inutile
cercare di restare logici, limpidi, lineari. A volte semplicemente si
perde il controllo, e tutto diventa nebbia.
S.
si scagliò sul malcapitato prendendolo per le spalline della giacca
e sbattendolo sulla vetrina di un negozio. Per fortuna la vetrina era
spessa, ed aveva assorbito il colpo senza neanche incrinarsi. Sarebbe
potuta andare molto peggio.
“Stai
zitto vecchio coglione, stai zitto capito? Mi devi solo rispondere,
va bene? Io non voglio fare male a nessuno, a nessuno capito? Mi devi
solo dire se MI-RIESCI-A-VEDERE? Mi riesci a vedere? Capito? Tutto
qui. Solo questo. Non voglio menare picchiare nessuno…ma tu mi devi
rispondere a questa cazzo di domanda di merda, capito?”
Le urla di S. avevano ricacciato il coraggio nella
gola di quel signore. Farfugliava, balbettava, cacciava fuori sillabe
senza senso e senza direzione.
S. lo lasciò andare. Non aveva senso continuare.
E poi non si vedeva neanche nella vetrina di quel
negozio: vedeva la chierica del malcapitato, vedeva i vestiti di
marca indossati da quei manichini irrealmente privi di lineamenti,
vedeva perfino il riflesso delle due piccole lacrime che iniziavano
ad uscirgli da sotto gli occhi. Sembravano due gocce di pioggia che
scivolavano lentamente sul vetro.
Che senso aveva continuare ad urlare?
S. si lasciò andare, si squaglio a terra e
nascose la testa in mezzo alle ginocchia. Si morse anche le labbra
per evitare di piangere, ma, come tutto quello che aveva fatto da
quando si era alzato quella mattina, fu inutile.
“Piccolo…eccoti qui…perché stai facendo
così? Non ti senti bene? Dai, mi siedo accanto a te. Tu dimmi cosa
c’è che non va’. Dillo alla mamma”
“Cosa c’è che non va? Cosa c’è che non va?
Mamma…non c’è niente che va’. Niente. E’ tutto uno schifo.
Una merda. E oggi è peggio, peggio del solito. Non ci sono, non mi
vedo, non esisto. Negli specchi, nelle vetrine, non mi vedo.
Nell’ascensore. So che non ha senso. Per questo lo stavo chiedendo
in giro, ma è così. Non mi vedo per niente”
“Ma piccolo mio, a tutti succede di non vedersi
allo specchio. Di non piacersi, di non riconoscersi. Di non essere
contenti di quello che si vede. Di non vedersi per niente a volte. E’
normale. Stai solo crescendo. Fino adesso magari non ci avevi neanche
pensato. Devi solo stare tranquillo. Ma non puoi lasciare che questa
cosa ti butti giù così. Bisogna andare avanti, come un treno.
Capito? Chiudere gli occhi ed andare avanti passo dopo passo. Dai,
alzati. E’ ora di andare a lavoro: è il tuo primo giorno!”
“Tutto qui”
“Si dottore, tutto qui. O almeno è così che
l’ho visto. Vissuto insomma”
“In terza persona? Da fuori, diciamo?”
“Si, perché?”
“Niente, solo curiosità professionale. E
continua a non vedersi negli specchi?”
“Si, ma non è poi così male. Ci si abitua.”
“E il lavoro? Tutto a posto? Anche a casa?
Questa cosa non la disturba?”
“Si, diciamo tutto bene. Il lavoro è terribile.
Noioso. Ma ci si fa l’abitudine. A casa nessun problema. Sto
mettendo i soldi da parte per andare a vivere da solo. Ma lo farò
con calma. È vero, non mi vedo allo specchio, ma è solo un
fastidio. Qual è la parola che sto cercando? Ecco: è un
inconveniente. L’unico problema…beh…non so se è il caso...”
“Si, mi dica, non si deve vergognare. Rimarrà
fra noi. Questo è un posto sicuro, lo giuro”
“L’unico problema è che non riesco a
pettinarmi”.
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