lunedì 28 gennaio 2013

2000 (racconto breve tirato fuori da un cassetto)


Merda, pensò di colpo S.
Merda merda merda.
Il rumore di quelle parole si contorceva nel suo cervello seguendo i movimenti ancora insicuri del suo corpo, quasi ondeggiando. Le braccia e le gambe anchilosate tendevano le coperte in ogni direzione.
Erano le ore 07:08 di un soleggiato lunedì mattina.
S. si era svegliato da pochi secondi ma già sapeva che sarebbe stata una giornata difficile: un raggio di luce era filtrato attraverso la serranda abbassata e aveva colpito direttamente i suoi occhi senza essere invitato. Non era un buon inizio, e sembravano essersene accorte anche le sue palpebre, che non volevano saperne di aprirsi. Come se fossero appiccicate una all’altra.
“Svegliati pigrone, sono le otto!”
Quella voce, così distorta e distante, era di sua madre, V., una casalinga grassoccia, invecchiata in fretta e senza accorgersene, come tutte le persone che hanno avuto figli. Aveva bussato alla porta ed era entrata nella camera di S. senza aspettare la risposta, come faceva sempre d’altronde, anche nei momenti meno opportuni.
“Si..adesso arrivo! Cazzo..aspettami di sotto”
Appena queste parole, accompagnate da un buon quantitativo di alito pesante, uscirono dalla sua bocca, S. si alzò dal letto, quasi come se fosse stato scaraventato fuori dai sogni, e si diresse verso il bagno trascinando lentamente un passo dopo l’altro. Come se ogni passo fosse una fatica che andava attentamente soppesata..
Arrivato davanti al bagno, dopo uno sforzo che gli sembrava francamente disumano, aprì la porta del bagno e si diresse verso la tazza. Aveva sentito da qualche parte che il modo migliore per superare i postumi di una bella sbornia era bere molto, ma forse era soltanto un’altra leggenda metropolitana. Come i coccodrilli nelle fogne, o come il Papa. Meglio non pensarci, c’erano cose più urgenti da fare.
La sua perfetta, goduriosissima, pisciata mattutina fu bruscamente interrotta dalla suoneria del cellulare: sapete, ci sono alcune persone che pensano che basti conoscere la suoneria di qualcuno per capire che tipo sia. Beh, se questo fosse stato vero, S. sarebbe sicuramente stato un telefono dei primi del novecento, uno di quelli con la cornetta e con il filo arrotolato.
“’Giorno piccola. Sì, è il primo giorno...No, non sono nervoso...Mica devo progettare centrali nucleari...'Sto lavoro lo può fare pure una scimmia...Sì, va bene, ti chiamo quando faccio pausa...No, non ho la più vaga idea di quando c'è pausa...Primo giorno...Va bene, a dopo. Si, sono stanco…Buona giornata…”
Visto che aveva interrotto la sua routine S. decise di accendere il computer, e di guardare i suoi messaggi. Un cestino di mondezza virtuale: ecco cosa succede nel mondo mentre dormiamo. Spam, nient’altro che pile di spam che ci vengono lanciate addosso appena abbassiamo la guardia per qualche ora.
La luce bluastra del monitor faceva sembrare S. ancora più pallido, quasi malato. Aveva bisogno della sua medicina: 15cc di Coffea arabica macinata e torrefatta, da assumersi preferibilmente per via orale. C’era un solo ostacolo fra lui e il caffè, una manciata di acqua fresca sul viso.
Il ritorno al bagno fu meno difficoltoso: le gambe avevano ripreso a funzionare in maniera soddisfacente. S. riaprì la porta e si posizionò solidamente davanti all’ampio specchio che si trovava sopra il tinello. Si guardò fisso negli occhi. O almeno era quello che voleva fare. Restò qualche secondo immobile, fissando allibito lo specchio: c’era dello sporco, ma non aveva idea di cosa fosse. Poi Indietreggiò in maniera insicura di un soli due passi, come se avesse paura di inciampare sulla sua ombra, continuando a guardare enigmaticamente ciò che aveva di fronte.
In un unico, brevissimo, istante compì un movimento repentino e, poggiando la mano sulla maniglia, si lanciò verso la cucina, dove sperava di trovare la famiglia raccolta davanti alla colazione ancora calda, come ogni lunedì mattina dalla notte dei tempi.
Il rumore della porta che sbatteva fu la sua presentazione migliore, racchiudeva tutta la sua personalità in un unico, semplice, suono: fece irruzione violentemente nella stanza dove regnava il solito silenzio dovuto all’orario, alla stanchezza ed alla poca fantasia che si nascondeva nei geni dei Moro, e si mise a guardare i suoi familiari con uno sguardo attonito e curioso, in attesa di vedere le loro reazioni.
Un volto, poi un altro.
Poi un altro giro, così, per sicurezza.
Il Signor Moro si prese giusto il tempo per dire “Buongiorno”, e poi tornò al suo cornetto intriso di caffelatte. Non riusciva a connettere prima di mezzogiorno, a meno che non ci fosse una partita di calcio da qualche parte del globo terrestre.
“Tesoro, non mi importa quanto vai di fretta, non esci se prima non fai colazione!”
V. aveva preso suo figlio per le braccia, attanagliandolo con quella che sembrava essere una mossa da wrestler professionista, e l’aveva letteralmente messo a sedere. Per pochi attimi l’aroma del caffè aveva offuscato i pensieri di S, spingendolo a dimenticare quello specchio vuoto. Essenza di fiore di loto versione 2.0.
Ma non era bastato.
“Ma tu mi vedi?”
“Piccolo mio, non mi guardare così…sei bellissimo come sempre! Ma fatti la barba”
Quella mano passata dolcemente sulla guancia ancora ruvida era stata di troppo: aveva segnato il netto passaggio dalla notte al giorno, inaspettato come quell’invadente raggio di sole.
S. si era svegliato: non era un sogno.
“Cazzo mamma, perché cazzo non riesci ad ascoltarmi? Non ho chiesto COME mi vedi, ho chiesto SE mi vedi! MI VEDI?”
Ma il nulla degli occhi di V. era troppo evidente: un deserto di sale senza neanche un’oasi di saggezza, o di speranza. Come se le stessero parlando di fisica molecolare. Era un vuoto umido che riempiva tutta la stanza, e la svuotava. Non c’era più spazio.
S. aveva bisogno d’aria, di risposte, di mille altre cose che neanche riusciva ad immaginare tanto erano sepolte sotto un centinaio di chili di stronzate quotidiane: uscì dalla stanza alla stessa velocità con cui era entrato. E svestito nello stesso modo. La luce verde dell’ascensore fermo al piano era come un semaforo che lo invitava a scappare più in fretta che poteva.
Merda. Proprio oggi dovevo prendere l’ascensore?
Lo specchio rifletteva con chiarezza le porte che si chiudevano alle sue spalle. Lui non c’era, era perso nel meccanismo arrugginito di quello scatolone semovente. Si girò di scatto, dando le spalle allo specchio: gli sembrava la soluzione migliore.
Unica o migliore, non fa una gran differenza.
L’attesa era infinita: un lungo silenzio imbarazzato con se stesso. Peggio di quando era rimasto incastrato lì dentro con la Signora Satri, una novantaduenne arterioscelotica che lo aveva scambiato per suo nipote.
Le porte spalancate erano il segnale che aspettava: le sue gambe si muovevano quasi da sole, anche perché nel suo cervello aveva ben altro a cui pensare. Capire è molto più faticoso e complesso di quanto non si pensi.
Rimaneva soltanto da trovare qualcuno con cui parlare, qualcuno più sveglio di sua madre. Una persona qualsiasi, insomma.
Uno.
Il gabbiotto della portineria. Bene. L. non sarà un genio ma almeno mi conosce. Magari non si spaventerà. Magari non chiamerà neanche la polizia.
E’ incredibile come, anche nei momenti di stress, il nostro cervello riesca a rimanere lucido.
L. stava appoggiato al vetro del gabbiotto, soprappensiero. Anche lui doveva essersi svegliato male, perché non aveva un’aria riposata.
L.! L.! Ehi!”
S. strinse le spalle di L. come se lo stesse impugnando: un pallone da basket umano. Iniziò a scuterlo come se stesse cercando degli spiccioli.
“Mi vedi? Cazzo, mi vuoi rispondere, mi vedi? Eh? Eh? Mi vedi?”
L. sembrava una lattina di coca-cola shakerata: stava per esplodere. I piccoli sputi che S. gli aveva inavvertitamente stampato in faccia non erano stati certo d’aiuto nell’evitare la prevedibile reazione dell’anidride carbonica agitata a quella velocità. Si liberò senza troppa fatica dalla presa di L. e lo scaraventò a terra come se fosse un bambino di dieci anni. Una piccola eco si espanse per l’androne, appena percettibile.
“Vedo che sei un testa di cazzo! Levati dalle palle prima che ti prenda a calci nel culo brutto stronzo! Ma guarda tu che gente che ci sta in giro. Per ‘sti due spicci poi…”
Le parole di L. avevano fatto appena in tempo a raggiungere le orecchie ancora sporche di S., che stava velocemente uscendo dal cancello. Era come rimbalzato per terra, ed aveva ricominciato a correre come se tutto quello che era successo fosse soltanto un sogno post-realista.
Due.
Quella signora va bene. È perfetta. Non è vecchia. Non ha una borsetta con cui menarmi. Niente accuse di scippo. Se mi avvicino con calma e cortesia dovrebbe darmi retta. Buongiorno, mi scusi, permette una domanda. Buongiorno, mi scusi, permette una domanda. Buongiorno, mi scusi, permette una domanda. Buongiorno…
Ma c’era qualcosa che non andava: il suo corpo non riceveva gli impulsi neuronali in maniera corretta. Come se si disperdessero. Come se interagissero con l’adrenalina in maniere imprevedibili.
La prima cosa che fece fu quella di correre alle sue spalle senza rallentare minimamente, superando di striscio le due persone che li separavano; poi mise una mano sulla spalla della signora, toccando appena i suoi capelli ricci.
“MI SCUSI, PERMETTE UNA DOMANDA!”
Il tono di voce non era quello che voleva, neanche lontanamente. Era un lamento strozzato, troppo acuto, troppo perentorio, troppo ad alto volume. Non sembrava cortese.
Tutti si erano girati a guardarlo.
La donna si era come accartocciata, spalmata sul muro sporco di polvere e graffiti. Aveva alzato la gamba, come se il suo ginocchio portato all’altezza dell’inguine potesse proteggerla da una qualsiasi minaccia.
Meglio lasciar perdere questa stronza.
Ma, proprio in quel momento, si avvicinò un uomo sulla quarantina, col passo sicuro e l’aria minacciosa. Era un armadio, e S. era un semplice vestito. Mancava solo una stampella.
Tre.
Ottimo. Ecco il solito coglione che vuole fare il fico per impressionare la ragazza di turno. Classica sindrome del principe azzurro. Se avesse più capelli la ragazza ci cadrebbe alla grande. Almeno lui non si spaventerà. Devo solo stare attento ai calci sulle palle.
“Senti ragazzino, vedi di darti una calmata! Se provi a mettere un’altra volta le mani addosso alla signorina io ti…”
Ma era troppo tardi: è inutile cercare di restare lucidi, è inutile cercare di restare logici, limpidi, lineari. A volte semplicemente si perde il controllo, e tutto diventa nebbia.
S. si scagliò sul malcapitato prendendolo per le spalline della giacca e sbattendolo sulla vetrina di un negozio. Per fortuna la vetrina era spessa, ed aveva assorbito il colpo senza neanche incrinarsi. Sarebbe potuta andare molto peggio.
“Stai zitto vecchio coglione, stai zitto capito? Mi devi solo rispondere, va bene? Io non voglio fare male a nessuno, a nessuno capito? Mi devi solo dire se MI-RIESCI-A-VEDERE? Mi riesci a vedere? Capito? Tutto qui. Solo questo. Non voglio menare picchiare nessuno…ma tu mi devi rispondere a questa cazzo di domanda di merda, capito?”
Le urla di S. avevano ricacciato il coraggio nella gola di quel signore. Farfugliava, balbettava, cacciava fuori sillabe senza senso e senza direzione.
S. lo lasciò andare. Non aveva senso continuare.
E poi non si vedeva neanche nella vetrina di quel negozio: vedeva la chierica del malcapitato, vedeva i vestiti di marca indossati da quei manichini irrealmente privi di lineamenti, vedeva perfino il riflesso delle due piccole lacrime che iniziavano ad uscirgli da sotto gli occhi. Sembravano due gocce di pioggia che scivolavano lentamente sul vetro.
Che senso aveva continuare ad urlare?
S. si lasciò andare, si squaglio a terra e nascose la testa in mezzo alle ginocchia. Si morse anche le labbra per evitare di piangere, ma, come tutto quello che aveva fatto da quando si era alzato quella mattina, fu inutile.
“Piccolo…eccoti qui…perché stai facendo così? Non ti senti bene? Dai, mi siedo accanto a te. Tu dimmi cosa c’è che non va’. Dillo alla mamma”
“Cosa c’è che non va? Cosa c’è che non va? Mamma…non c’è niente che va’. Niente. E’ tutto uno schifo. Una merda. E oggi è peggio, peggio del solito. Non ci sono, non mi vedo, non esisto. Negli specchi, nelle vetrine, non mi vedo. Nell’ascensore. So che non ha senso. Per questo lo stavo chiedendo in giro, ma è così. Non mi vedo per niente”
“Ma piccolo mio, a tutti succede di non vedersi allo specchio. Di non piacersi, di non riconoscersi. Di non essere contenti di quello che si vede. Di non vedersi per niente a volte. E’ normale. Stai solo crescendo. Fino adesso magari non ci avevi neanche pensato. Devi solo stare tranquillo. Ma non puoi lasciare che questa cosa ti butti giù così. Bisogna andare avanti, come un treno. Capito? Chiudere gli occhi ed andare avanti passo dopo passo. Dai, alzati. E’ ora di andare a lavoro: è il tuo primo giorno!”




“Tutto qui”
“Si dottore, tutto qui. O almeno è così che l’ho visto. Vissuto insomma”
“In terza persona? Da fuori, diciamo?”
“Si, perché?”
“Niente, solo curiosità professionale. E continua a non vedersi negli specchi?”
“Si, ma non è poi così male. Ci si abitua.”
“E il lavoro? Tutto a posto? Anche a casa? Questa cosa non la disturba?”
“Si, diciamo tutto bene. Il lavoro è terribile. Noioso. Ma ci si fa l’abitudine. A casa nessun problema. Sto mettendo i soldi da parte per andare a vivere da solo. Ma lo farò con calma. È vero, non mi vedo allo specchio, ma è solo un fastidio. Qual è la parola che sto cercando? Ecco: è un inconveniente. L’unico problema…beh…non so se è il caso...”
“Si, mi dica, non si deve vergognare. Rimarrà fra noi. Questo è un posto sicuro, lo giuro”
“L’unico problema è che non riesco a pettinarmi”.

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