domenica 3 febbraio 2013

Essi Vivono (They Live)



La mia giornata tipo è abbastanza banale: normalmente mi alzo per le undici di mattina, affogo le prime tre ore in un miscuglio di caffè amaro e sigarette, poi mi installo davanti al computer per le successive sette a controllare le visualizzazioni del mio blog, a migliorare il layout e a superare qualche firewall di scarso livello. Di solito faccio una pausa di un quarto d'ora ogni tanto, giusto per dare libero sfogo alle mie esigenze fisiologiche primarie non più procrastinabili che non mi sembra il caso di elencare puntualmente.
Il mio blog ha appena raggiunto i 25 miliardi di visualizzazioni.
Per questo i soldi non sono un problema: otto insulsi banner pubblicitari ai quattro angoli sono più che sufficienti per condurre una vita decorosa.
Ho deciso di aprirlo circa due anni fa: mia nonna era morta da poco, e io non riuscivo a trovare i soldi per l'affitto. Lanciavo i miei curriculum in giro per Roma come se fossero stellette ninja, ma nessuno rispondeva. Non ho mai capito se ero io che puntavo troppo in alto, o se la congiuntura economica avversa rendeva la mia laurea in ingegneria informatica sostanzialmente indistinguibile da una triennale all'università per clown. Una sera sono tonato a casa appena brillo, saranno state le due, e il proprietario di casa di mia nonna, il signor Bianchi, aveva cambiato la serratura della porta d'ingresso. In fondo era stato gentile: aveva aspettato i tre mesi standard e aveva lasciato due valigie fuori dalla porta, più o meno tutti i miei averi se escludiamo una banconota da venti euro che avevo lasciato nel cassetto del comodino, una stecca di sigarette che era rimasta sotto al letto e una bottiglia di Jagermeister ancora chiusa.
A quel punto mi rimanevano soltanto sue opzioni: mantenere il mio orgoglio, e andarmi a rifugiare in un sottopassaggio della Stazione termini, o strisciare a casa di qualche amico. Dopo aver perso circa tre minuti a fissare l'ingresso maleodorante ella stazione ho deciso per la seconda opzione, e mi sono diretto verso casa di Samuele. La signora C., la madre di Samuele, aveva preparato un cena da ristorante stellato: gnocchetti radicchio e pancetta, arrosto al vino rosso e patate novelle, torta al cioccolato fondente e cocco. Presentava ogni piatto con una dovizia di particolari che rivelava tutto l'orgoglio per quel risultato.
Mi sentivo come se avessi avuto un televisore al posto della faccia, perennemente sintonizzato sulla pubblicità dell'8x1000 per l'Unicef: ogni volta che qualcuno si girava verso di me si forzava a sorridere in un misto di pietà e cortesia quasi vomitevole. Dopo essersi fatti raccontare, sempre molto civilmente, la lacrimevole storia della mia vita, fra genitori e nonne morte, sfratti, incidenti d'auto e contratti in nero da due euro all'ora, si sentivano finalmente appagati. Talmente pieni di superiorità caritatevole che il padre di Samuele, con gli occhi umidi mentre beveva un bicchierino di limocello fatto in casa, si offrì di procacciarmi un lavoro nella sua azienda, una multinazionale di cui non mi ricordo neanche il nome.
Nel giro di un mese tutto era sprofondato di nuovo nella più dolce mediocrità. Il lavoro era semplice, consisteva principalmente nello stare seduti a guardare il vuoto o a leggere un libro, mascherato come il poliziotto dei Village People. Il nuovo appartamento era il massimo che si potesse desiderare per quattrocento euro al mese senza contratto: una stanza, bagno e cucina in via Nomentana, appena fuori dal raccordo, in un decadente palazzone di nove piani incastrato fra una clinica privata e una caserma dei carabinieri. I vicini di casa oltraottantenni e completamente sordi erano la ciliegina sulla torta.
Poi, un lunedì indistinguibile da qualsiasi altro, mentre stavo leggendo un enfatico articolo del Corriere dello Sport sulla recente sconfitta della Roma in campionato, ho sentito un'esplosione provenire da dietro l'angolo: lo schermo della sicurezza interna era andato in corto, e l'eco del rumore assordante degli spari non accennava a fermarsi. I colpi si ripetevano uno dopo l'altro con una cadenza aritmetica e incessante. Ho tirato fuori il mio teaser (non avevo ancora una pistola perché ero in attesa del porto d'armi) e mi sono nascosto ad occhi chiusi sotto la scrivania, sperando che nessuno mi notasse. Ho provato a concentrarmi sul mio respiro: ero da solo nel buio con il mio lento, profondo, respiro. Due mani mi sono venute a prendere e hanno iniziato a scuotermi come un salvadanaio: il mio cuore si era fermato. Speravo soltanto che facessero in fretta.

  • Giovanni! Giovanni sono io!

Era il padre di Samuele: aveva del sangue misto a sudore spalmato sulla fronte e un orecchio completamente maciullato, ma non sembrava preoccupato. Si era rintanato sotto al tavolo: sorrideva in maniera strana e portava un paio di occhiali da sole avvolgenti.

  • Ehehehe, lo sapevo che sarebbe arrivato questo momento! Dio, questo è meglio del Nobel! Tieni, tu prendi questo e scappa.

Poi mi ha passato una scatola di cartone e ha iniziato a spingermi fuori dal mio rifugio. La scatola era piena di occhiali da sole. Ho pensato che avesse completamente perso la testa: era euforico e sovreccitato come se avesse appena sniffato mezzo quintale di coca. Mi sono appoggiato al muro, ancora parzialmente coperto dalla scrivania: il signor C. stava cercando di pulirsi gli occhiali con il camice insanguinato. Poi ha tirato fuori due enormi pistole cromate, ed praticamente scattato in piedi.

  • Mi raccomando, mettiti gli occhiali, non si è mai troppo sicuri. E racconta a tutti la mia storia. Vengo a prendervi bastardi! Sto arrivando!

È scomparso dietro l'angolo in un miscuglio di polvere e urla sconnesse, con il camice bianco che sventolava come il mantello di un supereroe da ospedale psichiatrico.
Io sono rimasto appoggiato al muro ancora un altro po', a fissare quella scatola: sul lato c'era scritto fragile, come su un qualsiasi scatolone abbandonato fuori da un supermercato. Ho impiegato quasi quindici minuti ad uscire dal palazzo: continuavo ad allontanarmi da rumore degli spari, ma il silenzio dietro ogni angolo era altrettanto spaventoso. Fuori dalla porta d'ingresso tutto sembrava normale: il guardiano al gabbiotto davanti alla sbarra stava leggendo il giornale. Quando sono entrato in macchina ho guardato attentamente quel parallelepipedo di vetri luminescenti: sembrava un comunissimo palazzo in un normale lunedì mattina alla periferia est di Roma. Non si sentiva un suono, non si vedeva un filo di fumo o un vetro rotto.

  • Hei, io me ne andrei a casa se fossi in te. Poi fai come ti pare.

Mi sono incolonnato sulla Salaria, mentre il palazzo diventava un riflesso luminoso sempre più lontano.
La scatola con gli occhiali era comodamente seduta al posto del passeggero, ad ogni frenata la proteggevo con una mano per evitare che cascasse in avanti. Al primo semaforo rosso ne ho preso uno: sembrava stranamente pesante. Appena li ho messi addosso tutti i colori sono scomparsi, come se qualcuno mi avesse catapultato il nervo ottico in un film dei primi del novecento: rimanevano soltanto poche sfumature di grigio, un sole pallido quasi indistinguibile dalla luna, un semaforo dai colori incomprensibili. Le mie mani erano di un bianco sporco, quasi trasparente. Sentivo il movimento delle ossa più vivo sotto quella pelle cartacea.
Una signora anziana stava attraversando la strada, ma c'era qualcosa di storto in quel profilo. Quando si è girata verso di me ho provato a fissarla negli occhi, ma non era possibile. Non aveva gli occhi. Nei suoi enormi incavi oculari c'erano soltanto due sfere nero petrolio, perfettamente lucide. Anche tutto il resto non aveva senso: era come se il suo viso non avesse pelle, le ossa bluastre erano in rilievo, sproporzionate, come un teschio ripreso da un fish-eye. I denti erano scoperti e troppo affilati e invece del naso aveva un buco profondo, dentro il quale riuscivo solo a scorgere un buio inumano. Ho accelerato di colpo e mi sono diretto verso casa. Provavo ad ignorare quello che vedevo distrattamente per strada, ma non ci riuscivo: tutto era differente, i cartelloni pubblicitari mostravano volti scheletrici e inneggiavano all'obbedienza. Parole cubitali come “sottomettiti!” “lavora!” e “consuma!” campeggiavano su tutti i muri al posto delle familiari scritte fatte con la bomboletta spray da qualche ragazzino.
Ad ogni incrocio le parole del Signor C. iniziavano ad avere più senso. I bastardi erano qui, fra noi. Passanti, carabinieri, bambini. Magari ce n'erano anche fra i miei amici, magari qualche mia ex ragazza in realtà era un fottutissimo scheletro scintillante mascherato da essere umano.
In un lampo di lucidità ho preso il cellulare, ho acceso la telecamera e ho messo un altro paio di occhiali davanti all'obbiettivo, poi sono sceso dalla macchina. Sul marciapiede passava uno di quei cosi travestito come un uomo grassoccio di mezz'età: non avevo idea se ci fosse una relazione diretta fra l'aspetto che assumevano e la loro vera natura, ma il sorriso bonario che scorgevo al di là degli occhiali ed il suo vestito marrone mi davano un minimo di sicurezza. Gli sono corso rapidamente intorno continuando a riprenderlo: le riprese erano un po' mosse e fuori fuoco, ma dall'alto della mia lunga carriera cinematografica mi sembravano fantastiche. Quell'affare continuava a fissarmi con i suoi pseudo-occhi completamente inespressivi, come se fossi un pazzo.
Sono saltato in macchina e sono volato verso casa.
Dopo aver chiuso a chiave la porta e messo una credenza di sicurezza a sbarrare il passaggio ho scaricato il filmato sul computer e l'ho messo su youtube: Essi Vivono (They Live) mi era sembrato un buon titolo. Tre ore dopo le visualizzazioni erano arrivate a otto. Era troppo lento, e non sapevo quanto tempo avevo a disposizione. I milioni di rumori di quell'appartamento non mi erano mai sembrati così sinistri: forse sapevano di me, forse mi stavano già cercando. Forse avevano delle navicelle spaziali, o delle pistole laser, non ne avevo idea. È in quel momento che ho avuto l'illuminazione: ho creato rapidamente una pagina web, con tanto di descrizione degli eventi di quel giorno e dedica al Signor C. Poi mi sono chiesto: quali sono i siti più visitati su internet? Semplice, i siti porno gratuiti, che a quanto pare coprono circa il 33% del traffico globale: ho hackerato i dieci più importanti (stranamente il livello di sicurezza era più elevato di quanto avessi immaginato) per fare in modo che, ad ogni apertura, si aprisse il sito del mio blog.
Nel giro di altre tre ore ero quasi a centomila visualizzazioni.
Da quel momento in poi dovevo solo aspettare: presto o tardi sarebbero arrivati, e io avevo solo un teaser con cui difendermi. Ero tranquillo, rilassato, sentivo un caldo senso di realizzazione partire dalla bocca dello stomaco. Ma è durato solo poche ore.
I giorni hanno iniziato a passare, lenti, noiosi, senza colori. In parte per colpa degli occhiali. Ma nessuno commentava, nessuno aveva ancora richiesto la spedizione gratuita degli occhiali che pubblicizzavo alla fine del filmato, nessuno era venuto a casa per darmi una mano. Nessuno. I telegiornali hanno iniziato a parlare del nuovo fenomeno virale: i due conduttori scheletrici di Studio Aperto hanno annunciato il servizio sul “video più visto di tutti i tempi” con quei loro incomprensibili sorrisi senza labbra.
Proprio oggi ho superato i 25 miliardi di visualizzazioni.
Mi è sembrato un buon momento per scrivere la mia storia, prima che sia troppo tardi. Forse stanno venendo a prendermi proprio adesso, o forse non verranno mai, non lo so. Resto seduto in questa stanza, e guardo fuori dalla finestra questa città che non riconosco più da qualche anno. Vorrei fare qualcos'altro, ma da solo non riuscirei a uccidere tutti quei fottutissimi mostri parlanti. E non so neanche dove potrei trovare una pistola.
Resto qui, aspettando che qualcuno o qualcosa venga a darmi una mano.
Non so cos'altro fare.


lunedì 28 gennaio 2013

2000 (racconto breve tirato fuori da un cassetto)


Merda, pensò di colpo S.
Merda merda merda.
Il rumore di quelle parole si contorceva nel suo cervello seguendo i movimenti ancora insicuri del suo corpo, quasi ondeggiando. Le braccia e le gambe anchilosate tendevano le coperte in ogni direzione.
Erano le ore 07:08 di un soleggiato lunedì mattina.
S. si era svegliato da pochi secondi ma già sapeva che sarebbe stata una giornata difficile: un raggio di luce era filtrato attraverso la serranda abbassata e aveva colpito direttamente i suoi occhi senza essere invitato. Non era un buon inizio, e sembravano essersene accorte anche le sue palpebre, che non volevano saperne di aprirsi. Come se fossero appiccicate una all’altra.
“Svegliati pigrone, sono le otto!”
Quella voce, così distorta e distante, era di sua madre, V., una casalinga grassoccia, invecchiata in fretta e senza accorgersene, come tutte le persone che hanno avuto figli. Aveva bussato alla porta ed era entrata nella camera di S. senza aspettare la risposta, come faceva sempre d’altronde, anche nei momenti meno opportuni.
“Si..adesso arrivo! Cazzo..aspettami di sotto”
Appena queste parole, accompagnate da un buon quantitativo di alito pesante, uscirono dalla sua bocca, S. si alzò dal letto, quasi come se fosse stato scaraventato fuori dai sogni, e si diresse verso il bagno trascinando lentamente un passo dopo l’altro. Come se ogni passo fosse una fatica che andava attentamente soppesata..
Arrivato davanti al bagno, dopo uno sforzo che gli sembrava francamente disumano, aprì la porta del bagno e si diresse verso la tazza. Aveva sentito da qualche parte che il modo migliore per superare i postumi di una bella sbornia era bere molto, ma forse era soltanto un’altra leggenda metropolitana. Come i coccodrilli nelle fogne, o come il Papa. Meglio non pensarci, c’erano cose più urgenti da fare.
La sua perfetta, goduriosissima, pisciata mattutina fu bruscamente interrotta dalla suoneria del cellulare: sapete, ci sono alcune persone che pensano che basti conoscere la suoneria di qualcuno per capire che tipo sia. Beh, se questo fosse stato vero, S. sarebbe sicuramente stato un telefono dei primi del novecento, uno di quelli con la cornetta e con il filo arrotolato.
“’Giorno piccola. Sì, è il primo giorno...No, non sono nervoso...Mica devo progettare centrali nucleari...'Sto lavoro lo può fare pure una scimmia...Sì, va bene, ti chiamo quando faccio pausa...No, non ho la più vaga idea di quando c'è pausa...Primo giorno...Va bene, a dopo. Si, sono stanco…Buona giornata…”
Visto che aveva interrotto la sua routine S. decise di accendere il computer, e di guardare i suoi messaggi. Un cestino di mondezza virtuale: ecco cosa succede nel mondo mentre dormiamo. Spam, nient’altro che pile di spam che ci vengono lanciate addosso appena abbassiamo la guardia per qualche ora.
La luce bluastra del monitor faceva sembrare S. ancora più pallido, quasi malato. Aveva bisogno della sua medicina: 15cc di Coffea arabica macinata e torrefatta, da assumersi preferibilmente per via orale. C’era un solo ostacolo fra lui e il caffè, una manciata di acqua fresca sul viso.
Il ritorno al bagno fu meno difficoltoso: le gambe avevano ripreso a funzionare in maniera soddisfacente. S. riaprì la porta e si posizionò solidamente davanti all’ampio specchio che si trovava sopra il tinello. Si guardò fisso negli occhi. O almeno era quello che voleva fare. Restò qualche secondo immobile, fissando allibito lo specchio: c’era dello sporco, ma non aveva idea di cosa fosse. Poi Indietreggiò in maniera insicura di un soli due passi, come se avesse paura di inciampare sulla sua ombra, continuando a guardare enigmaticamente ciò che aveva di fronte.
In un unico, brevissimo, istante compì un movimento repentino e, poggiando la mano sulla maniglia, si lanciò verso la cucina, dove sperava di trovare la famiglia raccolta davanti alla colazione ancora calda, come ogni lunedì mattina dalla notte dei tempi.
Il rumore della porta che sbatteva fu la sua presentazione migliore, racchiudeva tutta la sua personalità in un unico, semplice, suono: fece irruzione violentemente nella stanza dove regnava il solito silenzio dovuto all’orario, alla stanchezza ed alla poca fantasia che si nascondeva nei geni dei Moro, e si mise a guardare i suoi familiari con uno sguardo attonito e curioso, in attesa di vedere le loro reazioni.
Un volto, poi un altro.
Poi un altro giro, così, per sicurezza.
Il Signor Moro si prese giusto il tempo per dire “Buongiorno”, e poi tornò al suo cornetto intriso di caffelatte. Non riusciva a connettere prima di mezzogiorno, a meno che non ci fosse una partita di calcio da qualche parte del globo terrestre.
“Tesoro, non mi importa quanto vai di fretta, non esci se prima non fai colazione!”
V. aveva preso suo figlio per le braccia, attanagliandolo con quella che sembrava essere una mossa da wrestler professionista, e l’aveva letteralmente messo a sedere. Per pochi attimi l’aroma del caffè aveva offuscato i pensieri di S, spingendolo a dimenticare quello specchio vuoto. Essenza di fiore di loto versione 2.0.
Ma non era bastato.
“Ma tu mi vedi?”
“Piccolo mio, non mi guardare così…sei bellissimo come sempre! Ma fatti la barba”
Quella mano passata dolcemente sulla guancia ancora ruvida era stata di troppo: aveva segnato il netto passaggio dalla notte al giorno, inaspettato come quell’invadente raggio di sole.
S. si era svegliato: non era un sogno.
“Cazzo mamma, perché cazzo non riesci ad ascoltarmi? Non ho chiesto COME mi vedi, ho chiesto SE mi vedi! MI VEDI?”
Ma il nulla degli occhi di V. era troppo evidente: un deserto di sale senza neanche un’oasi di saggezza, o di speranza. Come se le stessero parlando di fisica molecolare. Era un vuoto umido che riempiva tutta la stanza, e la svuotava. Non c’era più spazio.
S. aveva bisogno d’aria, di risposte, di mille altre cose che neanche riusciva ad immaginare tanto erano sepolte sotto un centinaio di chili di stronzate quotidiane: uscì dalla stanza alla stessa velocità con cui era entrato. E svestito nello stesso modo. La luce verde dell’ascensore fermo al piano era come un semaforo che lo invitava a scappare più in fretta che poteva.
Merda. Proprio oggi dovevo prendere l’ascensore?
Lo specchio rifletteva con chiarezza le porte che si chiudevano alle sue spalle. Lui non c’era, era perso nel meccanismo arrugginito di quello scatolone semovente. Si girò di scatto, dando le spalle allo specchio: gli sembrava la soluzione migliore.
Unica o migliore, non fa una gran differenza.
L’attesa era infinita: un lungo silenzio imbarazzato con se stesso. Peggio di quando era rimasto incastrato lì dentro con la Signora Satri, una novantaduenne arterioscelotica che lo aveva scambiato per suo nipote.
Le porte spalancate erano il segnale che aspettava: le sue gambe si muovevano quasi da sole, anche perché nel suo cervello aveva ben altro a cui pensare. Capire è molto più faticoso e complesso di quanto non si pensi.
Rimaneva soltanto da trovare qualcuno con cui parlare, qualcuno più sveglio di sua madre. Una persona qualsiasi, insomma.
Uno.
Il gabbiotto della portineria. Bene. L. non sarà un genio ma almeno mi conosce. Magari non si spaventerà. Magari non chiamerà neanche la polizia.
E’ incredibile come, anche nei momenti di stress, il nostro cervello riesca a rimanere lucido.
L. stava appoggiato al vetro del gabbiotto, soprappensiero. Anche lui doveva essersi svegliato male, perché non aveva un’aria riposata.
L.! L.! Ehi!”
S. strinse le spalle di L. come se lo stesse impugnando: un pallone da basket umano. Iniziò a scuterlo come se stesse cercando degli spiccioli.
“Mi vedi? Cazzo, mi vuoi rispondere, mi vedi? Eh? Eh? Mi vedi?”
L. sembrava una lattina di coca-cola shakerata: stava per esplodere. I piccoli sputi che S. gli aveva inavvertitamente stampato in faccia non erano stati certo d’aiuto nell’evitare la prevedibile reazione dell’anidride carbonica agitata a quella velocità. Si liberò senza troppa fatica dalla presa di L. e lo scaraventò a terra come se fosse un bambino di dieci anni. Una piccola eco si espanse per l’androne, appena percettibile.
“Vedo che sei un testa di cazzo! Levati dalle palle prima che ti prenda a calci nel culo brutto stronzo! Ma guarda tu che gente che ci sta in giro. Per ‘sti due spicci poi…”
Le parole di L. avevano fatto appena in tempo a raggiungere le orecchie ancora sporche di S., che stava velocemente uscendo dal cancello. Era come rimbalzato per terra, ed aveva ricominciato a correre come se tutto quello che era successo fosse soltanto un sogno post-realista.
Due.
Quella signora va bene. È perfetta. Non è vecchia. Non ha una borsetta con cui menarmi. Niente accuse di scippo. Se mi avvicino con calma e cortesia dovrebbe darmi retta. Buongiorno, mi scusi, permette una domanda. Buongiorno, mi scusi, permette una domanda. Buongiorno, mi scusi, permette una domanda. Buongiorno…
Ma c’era qualcosa che non andava: il suo corpo non riceveva gli impulsi neuronali in maniera corretta. Come se si disperdessero. Come se interagissero con l’adrenalina in maniere imprevedibili.
La prima cosa che fece fu quella di correre alle sue spalle senza rallentare minimamente, superando di striscio le due persone che li separavano; poi mise una mano sulla spalla della signora, toccando appena i suoi capelli ricci.
“MI SCUSI, PERMETTE UNA DOMANDA!”
Il tono di voce non era quello che voleva, neanche lontanamente. Era un lamento strozzato, troppo acuto, troppo perentorio, troppo ad alto volume. Non sembrava cortese.
Tutti si erano girati a guardarlo.
La donna si era come accartocciata, spalmata sul muro sporco di polvere e graffiti. Aveva alzato la gamba, come se il suo ginocchio portato all’altezza dell’inguine potesse proteggerla da una qualsiasi minaccia.
Meglio lasciar perdere questa stronza.
Ma, proprio in quel momento, si avvicinò un uomo sulla quarantina, col passo sicuro e l’aria minacciosa. Era un armadio, e S. era un semplice vestito. Mancava solo una stampella.
Tre.
Ottimo. Ecco il solito coglione che vuole fare il fico per impressionare la ragazza di turno. Classica sindrome del principe azzurro. Se avesse più capelli la ragazza ci cadrebbe alla grande. Almeno lui non si spaventerà. Devo solo stare attento ai calci sulle palle.
“Senti ragazzino, vedi di darti una calmata! Se provi a mettere un’altra volta le mani addosso alla signorina io ti…”
Ma era troppo tardi: è inutile cercare di restare lucidi, è inutile cercare di restare logici, limpidi, lineari. A volte semplicemente si perde il controllo, e tutto diventa nebbia.
S. si scagliò sul malcapitato prendendolo per le spalline della giacca e sbattendolo sulla vetrina di un negozio. Per fortuna la vetrina era spessa, ed aveva assorbito il colpo senza neanche incrinarsi. Sarebbe potuta andare molto peggio.
“Stai zitto vecchio coglione, stai zitto capito? Mi devi solo rispondere, va bene? Io non voglio fare male a nessuno, a nessuno capito? Mi devi solo dire se MI-RIESCI-A-VEDERE? Mi riesci a vedere? Capito? Tutto qui. Solo questo. Non voglio menare picchiare nessuno…ma tu mi devi rispondere a questa cazzo di domanda di merda, capito?”
Le urla di S. avevano ricacciato il coraggio nella gola di quel signore. Farfugliava, balbettava, cacciava fuori sillabe senza senso e senza direzione.
S. lo lasciò andare. Non aveva senso continuare.
E poi non si vedeva neanche nella vetrina di quel negozio: vedeva la chierica del malcapitato, vedeva i vestiti di marca indossati da quei manichini irrealmente privi di lineamenti, vedeva perfino il riflesso delle due piccole lacrime che iniziavano ad uscirgli da sotto gli occhi. Sembravano due gocce di pioggia che scivolavano lentamente sul vetro.
Che senso aveva continuare ad urlare?
S. si lasciò andare, si squaglio a terra e nascose la testa in mezzo alle ginocchia. Si morse anche le labbra per evitare di piangere, ma, come tutto quello che aveva fatto da quando si era alzato quella mattina, fu inutile.
“Piccolo…eccoti qui…perché stai facendo così? Non ti senti bene? Dai, mi siedo accanto a te. Tu dimmi cosa c’è che non va’. Dillo alla mamma”
“Cosa c’è che non va? Cosa c’è che non va? Mamma…non c’è niente che va’. Niente. E’ tutto uno schifo. Una merda. E oggi è peggio, peggio del solito. Non ci sono, non mi vedo, non esisto. Negli specchi, nelle vetrine, non mi vedo. Nell’ascensore. So che non ha senso. Per questo lo stavo chiedendo in giro, ma è così. Non mi vedo per niente”
“Ma piccolo mio, a tutti succede di non vedersi allo specchio. Di non piacersi, di non riconoscersi. Di non essere contenti di quello che si vede. Di non vedersi per niente a volte. E’ normale. Stai solo crescendo. Fino adesso magari non ci avevi neanche pensato. Devi solo stare tranquillo. Ma non puoi lasciare che questa cosa ti butti giù così. Bisogna andare avanti, come un treno. Capito? Chiudere gli occhi ed andare avanti passo dopo passo. Dai, alzati. E’ ora di andare a lavoro: è il tuo primo giorno!”




“Tutto qui”
“Si dottore, tutto qui. O almeno è così che l’ho visto. Vissuto insomma”
“In terza persona? Da fuori, diciamo?”
“Si, perché?”
“Niente, solo curiosità professionale. E continua a non vedersi negli specchi?”
“Si, ma non è poi così male. Ci si abitua.”
“E il lavoro? Tutto a posto? Anche a casa? Questa cosa non la disturba?”
“Si, diciamo tutto bene. Il lavoro è terribile. Noioso. Ma ci si fa l’abitudine. A casa nessun problema. Sto mettendo i soldi da parte per andare a vivere da solo. Ma lo farò con calma. È vero, non mi vedo allo specchio, ma è solo un fastidio. Qual è la parola che sto cercando? Ecco: è un inconveniente. L’unico problema…beh…non so se è il caso...”
“Si, mi dica, non si deve vergognare. Rimarrà fra noi. Questo è un posto sicuro, lo giuro”
“L’unico problema è che non riesco a pettinarmi”.