domenica 3 febbraio 2013

Essi Vivono (They Live)



La mia giornata tipo è abbastanza banale: normalmente mi alzo per le undici di mattina, affogo le prime tre ore in un miscuglio di caffè amaro e sigarette, poi mi installo davanti al computer per le successive sette a controllare le visualizzazioni del mio blog, a migliorare il layout e a superare qualche firewall di scarso livello. Di solito faccio una pausa di un quarto d'ora ogni tanto, giusto per dare libero sfogo alle mie esigenze fisiologiche primarie non più procrastinabili che non mi sembra il caso di elencare puntualmente.
Il mio blog ha appena raggiunto i 25 miliardi di visualizzazioni.
Per questo i soldi non sono un problema: otto insulsi banner pubblicitari ai quattro angoli sono più che sufficienti per condurre una vita decorosa.
Ho deciso di aprirlo circa due anni fa: mia nonna era morta da poco, e io non riuscivo a trovare i soldi per l'affitto. Lanciavo i miei curriculum in giro per Roma come se fossero stellette ninja, ma nessuno rispondeva. Non ho mai capito se ero io che puntavo troppo in alto, o se la congiuntura economica avversa rendeva la mia laurea in ingegneria informatica sostanzialmente indistinguibile da una triennale all'università per clown. Una sera sono tonato a casa appena brillo, saranno state le due, e il proprietario di casa di mia nonna, il signor Bianchi, aveva cambiato la serratura della porta d'ingresso. In fondo era stato gentile: aveva aspettato i tre mesi standard e aveva lasciato due valigie fuori dalla porta, più o meno tutti i miei averi se escludiamo una banconota da venti euro che avevo lasciato nel cassetto del comodino, una stecca di sigarette che era rimasta sotto al letto e una bottiglia di Jagermeister ancora chiusa.
A quel punto mi rimanevano soltanto sue opzioni: mantenere il mio orgoglio, e andarmi a rifugiare in un sottopassaggio della Stazione termini, o strisciare a casa di qualche amico. Dopo aver perso circa tre minuti a fissare l'ingresso maleodorante ella stazione ho deciso per la seconda opzione, e mi sono diretto verso casa di Samuele. La signora C., la madre di Samuele, aveva preparato un cena da ristorante stellato: gnocchetti radicchio e pancetta, arrosto al vino rosso e patate novelle, torta al cioccolato fondente e cocco. Presentava ogni piatto con una dovizia di particolari che rivelava tutto l'orgoglio per quel risultato.
Mi sentivo come se avessi avuto un televisore al posto della faccia, perennemente sintonizzato sulla pubblicità dell'8x1000 per l'Unicef: ogni volta che qualcuno si girava verso di me si forzava a sorridere in un misto di pietà e cortesia quasi vomitevole. Dopo essersi fatti raccontare, sempre molto civilmente, la lacrimevole storia della mia vita, fra genitori e nonne morte, sfratti, incidenti d'auto e contratti in nero da due euro all'ora, si sentivano finalmente appagati. Talmente pieni di superiorità caritatevole che il padre di Samuele, con gli occhi umidi mentre beveva un bicchierino di limocello fatto in casa, si offrì di procacciarmi un lavoro nella sua azienda, una multinazionale di cui non mi ricordo neanche il nome.
Nel giro di un mese tutto era sprofondato di nuovo nella più dolce mediocrità. Il lavoro era semplice, consisteva principalmente nello stare seduti a guardare il vuoto o a leggere un libro, mascherato come il poliziotto dei Village People. Il nuovo appartamento era il massimo che si potesse desiderare per quattrocento euro al mese senza contratto: una stanza, bagno e cucina in via Nomentana, appena fuori dal raccordo, in un decadente palazzone di nove piani incastrato fra una clinica privata e una caserma dei carabinieri. I vicini di casa oltraottantenni e completamente sordi erano la ciliegina sulla torta.
Poi, un lunedì indistinguibile da qualsiasi altro, mentre stavo leggendo un enfatico articolo del Corriere dello Sport sulla recente sconfitta della Roma in campionato, ho sentito un'esplosione provenire da dietro l'angolo: lo schermo della sicurezza interna era andato in corto, e l'eco del rumore assordante degli spari non accennava a fermarsi. I colpi si ripetevano uno dopo l'altro con una cadenza aritmetica e incessante. Ho tirato fuori il mio teaser (non avevo ancora una pistola perché ero in attesa del porto d'armi) e mi sono nascosto ad occhi chiusi sotto la scrivania, sperando che nessuno mi notasse. Ho provato a concentrarmi sul mio respiro: ero da solo nel buio con il mio lento, profondo, respiro. Due mani mi sono venute a prendere e hanno iniziato a scuotermi come un salvadanaio: il mio cuore si era fermato. Speravo soltanto che facessero in fretta.

  • Giovanni! Giovanni sono io!

Era il padre di Samuele: aveva del sangue misto a sudore spalmato sulla fronte e un orecchio completamente maciullato, ma non sembrava preoccupato. Si era rintanato sotto al tavolo: sorrideva in maniera strana e portava un paio di occhiali da sole avvolgenti.

  • Ehehehe, lo sapevo che sarebbe arrivato questo momento! Dio, questo è meglio del Nobel! Tieni, tu prendi questo e scappa.

Poi mi ha passato una scatola di cartone e ha iniziato a spingermi fuori dal mio rifugio. La scatola era piena di occhiali da sole. Ho pensato che avesse completamente perso la testa: era euforico e sovreccitato come se avesse appena sniffato mezzo quintale di coca. Mi sono appoggiato al muro, ancora parzialmente coperto dalla scrivania: il signor C. stava cercando di pulirsi gli occhiali con il camice insanguinato. Poi ha tirato fuori due enormi pistole cromate, ed praticamente scattato in piedi.

  • Mi raccomando, mettiti gli occhiali, non si è mai troppo sicuri. E racconta a tutti la mia storia. Vengo a prendervi bastardi! Sto arrivando!

È scomparso dietro l'angolo in un miscuglio di polvere e urla sconnesse, con il camice bianco che sventolava come il mantello di un supereroe da ospedale psichiatrico.
Io sono rimasto appoggiato al muro ancora un altro po', a fissare quella scatola: sul lato c'era scritto fragile, come su un qualsiasi scatolone abbandonato fuori da un supermercato. Ho impiegato quasi quindici minuti ad uscire dal palazzo: continuavo ad allontanarmi da rumore degli spari, ma il silenzio dietro ogni angolo era altrettanto spaventoso. Fuori dalla porta d'ingresso tutto sembrava normale: il guardiano al gabbiotto davanti alla sbarra stava leggendo il giornale. Quando sono entrato in macchina ho guardato attentamente quel parallelepipedo di vetri luminescenti: sembrava un comunissimo palazzo in un normale lunedì mattina alla periferia est di Roma. Non si sentiva un suono, non si vedeva un filo di fumo o un vetro rotto.

  • Hei, io me ne andrei a casa se fossi in te. Poi fai come ti pare.

Mi sono incolonnato sulla Salaria, mentre il palazzo diventava un riflesso luminoso sempre più lontano.
La scatola con gli occhiali era comodamente seduta al posto del passeggero, ad ogni frenata la proteggevo con una mano per evitare che cascasse in avanti. Al primo semaforo rosso ne ho preso uno: sembrava stranamente pesante. Appena li ho messi addosso tutti i colori sono scomparsi, come se qualcuno mi avesse catapultato il nervo ottico in un film dei primi del novecento: rimanevano soltanto poche sfumature di grigio, un sole pallido quasi indistinguibile dalla luna, un semaforo dai colori incomprensibili. Le mie mani erano di un bianco sporco, quasi trasparente. Sentivo il movimento delle ossa più vivo sotto quella pelle cartacea.
Una signora anziana stava attraversando la strada, ma c'era qualcosa di storto in quel profilo. Quando si è girata verso di me ho provato a fissarla negli occhi, ma non era possibile. Non aveva gli occhi. Nei suoi enormi incavi oculari c'erano soltanto due sfere nero petrolio, perfettamente lucide. Anche tutto il resto non aveva senso: era come se il suo viso non avesse pelle, le ossa bluastre erano in rilievo, sproporzionate, come un teschio ripreso da un fish-eye. I denti erano scoperti e troppo affilati e invece del naso aveva un buco profondo, dentro il quale riuscivo solo a scorgere un buio inumano. Ho accelerato di colpo e mi sono diretto verso casa. Provavo ad ignorare quello che vedevo distrattamente per strada, ma non ci riuscivo: tutto era differente, i cartelloni pubblicitari mostravano volti scheletrici e inneggiavano all'obbedienza. Parole cubitali come “sottomettiti!” “lavora!” e “consuma!” campeggiavano su tutti i muri al posto delle familiari scritte fatte con la bomboletta spray da qualche ragazzino.
Ad ogni incrocio le parole del Signor C. iniziavano ad avere più senso. I bastardi erano qui, fra noi. Passanti, carabinieri, bambini. Magari ce n'erano anche fra i miei amici, magari qualche mia ex ragazza in realtà era un fottutissimo scheletro scintillante mascherato da essere umano.
In un lampo di lucidità ho preso il cellulare, ho acceso la telecamera e ho messo un altro paio di occhiali davanti all'obbiettivo, poi sono sceso dalla macchina. Sul marciapiede passava uno di quei cosi travestito come un uomo grassoccio di mezz'età: non avevo idea se ci fosse una relazione diretta fra l'aspetto che assumevano e la loro vera natura, ma il sorriso bonario che scorgevo al di là degli occhiali ed il suo vestito marrone mi davano un minimo di sicurezza. Gli sono corso rapidamente intorno continuando a riprenderlo: le riprese erano un po' mosse e fuori fuoco, ma dall'alto della mia lunga carriera cinematografica mi sembravano fantastiche. Quell'affare continuava a fissarmi con i suoi pseudo-occhi completamente inespressivi, come se fossi un pazzo.
Sono saltato in macchina e sono volato verso casa.
Dopo aver chiuso a chiave la porta e messo una credenza di sicurezza a sbarrare il passaggio ho scaricato il filmato sul computer e l'ho messo su youtube: Essi Vivono (They Live) mi era sembrato un buon titolo. Tre ore dopo le visualizzazioni erano arrivate a otto. Era troppo lento, e non sapevo quanto tempo avevo a disposizione. I milioni di rumori di quell'appartamento non mi erano mai sembrati così sinistri: forse sapevano di me, forse mi stavano già cercando. Forse avevano delle navicelle spaziali, o delle pistole laser, non ne avevo idea. È in quel momento che ho avuto l'illuminazione: ho creato rapidamente una pagina web, con tanto di descrizione degli eventi di quel giorno e dedica al Signor C. Poi mi sono chiesto: quali sono i siti più visitati su internet? Semplice, i siti porno gratuiti, che a quanto pare coprono circa il 33% del traffico globale: ho hackerato i dieci più importanti (stranamente il livello di sicurezza era più elevato di quanto avessi immaginato) per fare in modo che, ad ogni apertura, si aprisse il sito del mio blog.
Nel giro di altre tre ore ero quasi a centomila visualizzazioni.
Da quel momento in poi dovevo solo aspettare: presto o tardi sarebbero arrivati, e io avevo solo un teaser con cui difendermi. Ero tranquillo, rilassato, sentivo un caldo senso di realizzazione partire dalla bocca dello stomaco. Ma è durato solo poche ore.
I giorni hanno iniziato a passare, lenti, noiosi, senza colori. In parte per colpa degli occhiali. Ma nessuno commentava, nessuno aveva ancora richiesto la spedizione gratuita degli occhiali che pubblicizzavo alla fine del filmato, nessuno era venuto a casa per darmi una mano. Nessuno. I telegiornali hanno iniziato a parlare del nuovo fenomeno virale: i due conduttori scheletrici di Studio Aperto hanno annunciato il servizio sul “video più visto di tutti i tempi” con quei loro incomprensibili sorrisi senza labbra.
Proprio oggi ho superato i 25 miliardi di visualizzazioni.
Mi è sembrato un buon momento per scrivere la mia storia, prima che sia troppo tardi. Forse stanno venendo a prendermi proprio adesso, o forse non verranno mai, non lo so. Resto seduto in questa stanza, e guardo fuori dalla finestra questa città che non riconosco più da qualche anno. Vorrei fare qualcos'altro, ma da solo non riuscirei a uccidere tutti quei fottutissimi mostri parlanti. E non so neanche dove potrei trovare una pistola.
Resto qui, aspettando che qualcuno o qualcosa venga a darmi una mano.
Non so cos'altro fare.