In questo complesso momento, soprattutto guardando i telegiornali, si ha sempre più spesso l'impressione di essere in un ricorso storico continuo, quasi un ritorno prepotente (e petulante) dei climi e dei problemi del periodo '92-'96.
In effetti i punti di contatto non sono pochi: l'impressione di un progressivo deterioramento morale della politica, fiammate di antipolitica provenienti tanto da destra quanto da sinistra, il governo tecnico (prima Ciampi e poi, soprattutto, Dini) le tematiche della legge elettorale e del finanziamento pubblico ai partiti (entrambe presenti nel referendum abrogativo del 1993), la riforma del mercato del lavoro (basti pensare al protocollo Ciampi del 1993), la riforma delle pensioni (Dini, 1995) e le riforme istituzionali e costituzionali.
E' vero, le somiglianze sono tante, ma sono passati soltanto quindici-vent'anni da quel periodo, si può veramente parlare di un ricorso storico? Io non credo. Piuttosto che di un ricorso io parlerei di un "riciclo" di problemi che sono appena riemersi dopo un periodo in cui sono rimasti, sfortunatamente, assopiti. Il vero problema, a mio parere, è stata l'assenza di un vero momento di rottura col il sistema precedente: il fallimento della bicamerale D'Alema, infatti, ha lasciato il peso delle aspettative di cambiamento esclusivamente sul referendum e sulla susseguente legge elettorale, che da sola non è stata e non poteva essere sufficiente a supportare l'inizio della II Repubblica. Senza un nuovo patto costituente ma anche costitutivo, infatti, era prevedibile che i medesimi problemi riemergessero violentemente al primo segnale di scricchiolio di un sistema che, in questo periodo storico, è stato fortemente contrassegnato dalla continua tensione fra la lettera della Costituzione e la differente percezione sociale e mediatica del suo significato. Parole come "Premier", norme come quella sull'obbligo di indicazione del "capo della forza politica" nelle schede elettorali previsto dal Porcellum, le continue accuse di trasformismo e partitocrazia infatti derivano da questa frattura, da tutte le promesse mancate dell'ultimo periodo della I Repubblica.
Detto in poche parole: c'è stata la percezione sociale e mediatica di un cambiamento che non è mai realmente avvenuto se non nei nomi e nei simboli di partito.
Adesso non è più possibile commettere il medesimo errore, non è più possibile sottoporre la (bellissima) Costituzione del '48 ad ulteriori tensioni che rischierebbero di sfaldare non solo il suo tessuto intrinseco, ma anche lo stesso tessuto sociale: non è più possibile affidarsi a leggi e leggine emergenziali per superare l'impasse del momento e poi continuare come nulla fosse successo. Rimangono soltanto due soluzioni nette: o tornare in toto al sistema costituzionale precedente, al classico parlamentarismo senza correzioni posticce previsto dalla Costituzione ancora vigente, oppure andare avanti compiutamente ed approvare una completa modifica della parte II con specifico riferimento alla forma di governo, che porti ad un effettivo rinnovamento e ad un riconoscimento reciproco fra le forze politiche.
Allora ben venga la legge elettorale, ben venga la legge sul finanziamento pubblico ai partiti (a patto che lo razionalizzi e non lo elimini) e ben venga la riduzione del numero dei parlamentari, ma senza dimenticarsi del passato e di come, senza una struttura costituzionale che includa queste modifiche in un contesto più ampio, gli stessi problemi sono destinati a ripresentarsi a breve, probabilmente in maniera ancora più violenta.
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