La mia
giornata tipo è abbastanza banale: normalmente mi alzo per le undici
di mattina, affogo le prime tre ore in un miscuglio di caffè amaro e
sigarette, poi mi installo davanti al computer per le successive
sette a controllare le visualizzazioni del mio blog, a migliorare il
layout e a superare qualche firewall di scarso livello. Di solito
faccio una pausa di un quarto d'ora ogni tanto, giusto per dare
libero sfogo alle mie esigenze fisiologiche primarie non più
procrastinabili che non mi sembra il caso di elencare puntualmente.
Il mio
blog ha appena raggiunto i 25 miliardi di visualizzazioni.
Per
questo i soldi non sono un problema: otto insulsi banner pubblicitari
ai quattro angoli sono più che sufficienti per condurre una vita
decorosa.
Ho
deciso di aprirlo circa due anni fa: mia nonna era morta da poco, e
io non riuscivo a trovare i soldi per l'affitto. Lanciavo i miei
curriculum in giro per Roma come se fossero stellette ninja, ma
nessuno rispondeva. Non ho mai capito se ero io che puntavo troppo in
alto, o se la congiuntura economica avversa rendeva la mia laurea in
ingegneria informatica sostanzialmente indistinguibile da una
triennale all'università per clown. Una sera sono tonato a casa
appena brillo, saranno state le due, e il proprietario di casa di mia
nonna, il signor Bianchi, aveva cambiato la serratura della porta
d'ingresso. In fondo era stato gentile: aveva aspettato i tre mesi
standard e aveva lasciato due valigie fuori dalla porta, più o meno
tutti i miei averi se escludiamo una banconota da venti euro che
avevo lasciato nel cassetto del comodino, una stecca di sigarette che
era rimasta sotto al letto e una bottiglia di Jagermeister ancora
chiusa.
A quel
punto mi rimanevano soltanto sue opzioni: mantenere il mio orgoglio,
e andarmi a rifugiare in un sottopassaggio della Stazione termini, o
strisciare a casa di qualche amico. Dopo aver perso circa tre minuti
a fissare l'ingresso maleodorante ella stazione ho deciso per la
seconda opzione, e mi sono diretto verso casa di Samuele. La signora
C., la madre di Samuele, aveva preparato un cena da ristorante
stellato: gnocchetti radicchio e pancetta, arrosto al vino rosso e
patate novelle, torta al cioccolato fondente e cocco. Presentava ogni
piatto con una dovizia di particolari che rivelava tutto l'orgoglio
per quel risultato.
Mi
sentivo come se avessi avuto un televisore al posto della faccia,
perennemente sintonizzato sulla pubblicità dell'8x1000 per l'Unicef:
ogni volta che qualcuno si girava verso di me si forzava a sorridere
in un misto di pietà e cortesia quasi vomitevole. Dopo essersi fatti
raccontare, sempre molto civilmente, la lacrimevole storia della mia
vita, fra genitori e nonne morte, sfratti, incidenti d'auto e
contratti in nero da due euro all'ora, si sentivano finalmente
appagati. Talmente pieni di superiorità caritatevole che il padre di
Samuele, con gli occhi umidi mentre beveva un bicchierino di
limocello fatto in casa, si offrì di procacciarmi un lavoro nella
sua azienda, una multinazionale di cui non mi ricordo neanche il
nome.
Nel
giro di un mese tutto era sprofondato di nuovo nella più dolce
mediocrità. Il lavoro era semplice, consisteva principalmente nello
stare seduti a guardare il vuoto o a leggere un libro, mascherato
come il poliziotto dei Village People. Il nuovo appartamento
era il massimo che si potesse desiderare per quattrocento euro al
mese senza contratto: una stanza, bagno e cucina in via Nomentana,
appena fuori dal raccordo, in un decadente palazzone di nove piani
incastrato fra una clinica privata e una caserma dei carabinieri. I
vicini di casa oltraottantenni e completamente sordi erano la
ciliegina sulla torta.
Poi,
un lunedì indistinguibile da qualsiasi altro, mentre stavo leggendo
un enfatico articolo del Corriere dello Sport sulla recente sconfitta
della Roma in campionato, ho sentito un'esplosione provenire da
dietro l'angolo: lo schermo della sicurezza interna era andato in
corto, e l'eco del rumore assordante degli spari non accennava a
fermarsi. I colpi si ripetevano uno dopo l'altro con una cadenza
aritmetica e incessante. Ho tirato fuori il mio teaser (non avevo
ancora una pistola perché ero in attesa del porto d'armi) e mi sono
nascosto ad occhi chiusi sotto la scrivania, sperando che nessuno mi
notasse. Ho provato a concentrarmi sul mio respiro: ero da solo nel
buio con il mio lento, profondo, respiro. Due mani mi sono venute a
prendere e hanno iniziato a scuotermi come un salvadanaio: il mio
cuore si era fermato. Speravo soltanto che facessero in fretta.
- Giovanni! Giovanni sono io!
Era il
padre di Samuele: aveva del sangue misto a sudore spalmato sulla
fronte e un orecchio completamente maciullato, ma non sembrava
preoccupato. Si era rintanato sotto al tavolo: sorrideva in maniera
strana e portava un paio di occhiali da sole avvolgenti.
- Ehehehe, lo sapevo che sarebbe arrivato questo momento! Dio, questo è meglio del Nobel! Tieni, tu prendi questo e scappa.
Poi mi
ha passato una scatola di cartone e ha iniziato a spingermi fuori dal
mio rifugio. La scatola era piena di occhiali da sole. Ho pensato che
avesse completamente perso la testa: era euforico e sovreccitato come
se avesse appena sniffato mezzo quintale di coca.
Mi sono appoggiato al muro, ancora parzialmente coperto dalla
scrivania: il signor C. stava cercando di pulirsi gli occhiali con il
camice insanguinato. Poi ha tirato fuori due enormi pistole cromate,
ed praticamente scattato in piedi.
- Mi raccomando, mettiti gli occhiali, non si è mai troppo sicuri. E racconta a tutti la mia storia. Vengo a prendervi bastardi! Sto arrivando!
È scomparso dietro l'angolo in un miscuglio di polvere e urla
sconnesse, con il camice bianco che sventolava come il mantello di un
supereroe da ospedale psichiatrico.
Io
sono rimasto appoggiato al muro ancora un altro po', a fissare quella
scatola: sul lato c'era scritto fragile,
come su un qualsiasi scatolone abbandonato fuori da un supermercato.
Ho impiegato quasi quindici minuti ad uscire dal palazzo: continuavo
ad allontanarmi da rumore degli spari, ma il silenzio dietro ogni
angolo era altrettanto spaventoso. Fuori dalla porta d'ingresso tutto
sembrava normale: il guardiano al gabbiotto davanti alla sbarra stava
leggendo il giornale. Quando sono entrato in macchina ho guardato
attentamente quel parallelepipedo di vetri luminescenti: sembrava un
comunissimo palazzo in un normale lunedì mattina alla periferia est
di Roma. Non si sentiva un suono, non si vedeva un filo di fumo o un
vetro rotto.
- Hei, io me ne andrei a casa se fossi in te. Poi fai come ti pare.
Mi sono incolonnato sulla Salaria, mentre il palazzo diventava un
riflesso luminoso sempre più lontano.
La scatola con gli occhiali era comodamente seduta al posto del
passeggero, ad ogni frenata la proteggevo con una mano per evitare
che cascasse in avanti. Al primo semaforo rosso ne ho preso uno:
sembrava stranamente pesante. Appena li ho messi addosso tutti i
colori sono scomparsi, come se qualcuno mi avesse catapultato il
nervo ottico in un film dei primi del novecento: rimanevano soltanto
poche sfumature di grigio, un sole pallido quasi indistinguibile
dalla luna, un semaforo dai colori incomprensibili. Le mie mani erano
di un bianco sporco, quasi trasparente. Sentivo il movimento delle
ossa più vivo sotto quella pelle cartacea.
Una
signora anziana stava attraversando la strada, ma c'era qualcosa di
storto in quel profilo. Quando si è girata verso di me ho provato a
fissarla negli occhi, ma non era possibile. Non aveva gli occhi. Nei
suoi enormi incavi oculari c'erano soltanto due sfere nero petrolio,
perfettamente lucide. Anche tutto il resto non aveva senso: era come
se il suo viso non avesse pelle, le ossa bluastre erano in rilievo,
sproporzionate, come un teschio ripreso da un fish-eye.
I denti erano scoperti e troppo affilati e invece del naso aveva un
buco profondo, dentro il quale riuscivo solo a scorgere un buio
inumano. Ho accelerato di colpo e mi sono diretto verso casa. Provavo
ad ignorare quello che vedevo distrattamente per strada, ma non ci
riuscivo: tutto era differente, i cartelloni pubblicitari mostravano
volti scheletrici e inneggiavano all'obbedienza. Parole cubitali come
“sottomettiti!” “lavora!” e “consuma!” campeggiavano su
tutti i muri al posto delle familiari scritte fatte con la bomboletta
spray da qualche ragazzino.
Ad ogni incrocio le parole del Signor C. iniziavano ad avere più
senso. I bastardi erano qui, fra noi. Passanti, carabinieri, bambini.
Magari ce n'erano anche fra i miei amici, magari qualche mia ex
ragazza in realtà era un fottutissimo scheletro scintillante
mascherato da essere umano.
In un lampo di lucidità ho preso il cellulare, ho acceso la
telecamera e ho messo un altro paio di occhiali davanti
all'obbiettivo, poi sono sceso dalla macchina. Sul marciapiede
passava uno di quei cosi travestito come un uomo grassoccio di
mezz'età: non avevo idea se ci fosse una relazione diretta fra
l'aspetto che assumevano e la loro vera natura, ma il sorriso bonario
che scorgevo al di là degli occhiali ed il suo vestito marrone mi
davano un minimo di sicurezza. Gli sono corso rapidamente intorno
continuando a riprenderlo: le riprese erano un po' mosse e fuori
fuoco, ma dall'alto della mia lunga carriera cinematografica mi
sembravano fantastiche. Quell'affare continuava a fissarmi con i suoi
pseudo-occhi completamente inespressivi, come se fossi un pazzo.
Sono saltato in macchina e sono volato verso casa.
Dopo
aver chiuso a chiave la porta e messo una credenza di sicurezza a
sbarrare il passaggio ho scaricato il filmato sul computer e l'ho
messo su youtube:
Essi Vivono (They
Live)
mi era sembrato un buon titolo. Tre ore dopo le visualizzazioni erano
arrivate a otto. Era troppo lento, e non sapevo quanto tempo avevo a
disposizione. I milioni di rumori di quell'appartamento non mi erano
mai sembrati così sinistri: forse sapevano di me, forse mi stavano
già cercando. Forse avevano delle navicelle spaziali, o delle
pistole laser, non ne avevo idea. È in quel momento che ho avuto
l'illuminazione: ho creato rapidamente una pagina web, con tanto di
descrizione degli eventi di quel giorno e dedica al Signor C. Poi mi
sono chiesto: quali sono i siti più visitati su internet? Semplice,
i siti porno gratuiti, che a quanto pare coprono circa il 33% del
traffico globale: ho hackerato i dieci più importanti (stranamente
il livello di sicurezza era più elevato di quanto avessi immaginato)
per fare in modo che, ad ogni apertura, si aprisse il sito del mio
blog.
Nel giro di altre tre ore ero quasi a centomila visualizzazioni.
Da quel momento in poi dovevo solo aspettare: presto o tardi
sarebbero arrivati, e io avevo solo un teaser con cui difendermi. Ero
tranquillo, rilassato, sentivo un caldo senso di realizzazione
partire dalla bocca dello stomaco. Ma è durato solo poche ore.
I giorni hanno iniziato a passare, lenti, noiosi, senza colori. In
parte per colpa degli occhiali. Ma nessuno commentava, nessuno aveva
ancora richiesto la spedizione gratuita degli occhiali che
pubblicizzavo alla fine del filmato, nessuno era venuto a casa per
darmi una mano. Nessuno. I telegiornali hanno iniziato a parlare del
nuovo fenomeno virale: i due conduttori scheletrici di Studio Aperto
hanno annunciato il servizio sul “video più visto di tutti i
tempi” con quei loro incomprensibili sorrisi senza labbra.
Proprio oggi ho superato i 25 miliardi di visualizzazioni.
Mi è sembrato un buon momento per scrivere la mia storia, prima che
sia troppo tardi. Forse stanno venendo a prendermi proprio adesso, o
forse non verranno mai, non lo so. Resto seduto in questa stanza, e
guardo fuori dalla finestra questa città che non riconosco più da
qualche anno. Vorrei fare qualcos'altro, ma da solo non riuscirei a
uccidere tutti quei fottutissimi mostri parlanti. E non so neanche
dove potrei trovare una pistola.
Resto qui, aspettando che qualcuno o qualcosa venga a darmi una mano.
Non so cos'altro fare.